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Mafia e droga nell’agrigentino: fermati restano in silenzio, emergono diversi particolari sull’inchiesta 

Si sono tenuti, questa mattina, gli interrogatori di convalida dei fermati del blitz dei carabinieri del reparto Operativo di Agrigento, coordinato dalla Dda di Palermo, che ha colpito le famiglie mafiose di Villaseta e Porto Empedocle. 

Quasi tutti gli indagati hanno fatto scena muta. La maggior parte delle posizioni (7 fermi non sono stati eseguiti perché gli indagati si trovavano già in carcere o all’estero) saranno decise dai gip del tribunale di Agrigento: Giuseppe Miceli, Giuseppa Zampino e Micaela Raimondo. Alcuni indagati si trovavano a Sciacca e Siracusa, quindi la competenza, in questa fase, è dei gip dei tribunali di Sciacca e Siracusa. Si sono avvalsi della facoltà di non rispondere: Fabrizio Messina, ritenuto il capo della famiglia mafiosa di Porto Empedocle, Guido Vasile (i legali difensori hanno prodotto una documentazione medica che attesterebbe gravi problemi di salute e hanno chiesto gli arresti domiciliari con l’applicazione del braccialetto elettronico), Pietro Capraro, presunto capomafia di Villaseta, Gaetano Licata, Vincenzo Parla, Cristian Gastoni, Giorgio Orsolino, Angelo Graci, Gabriele Minio, Alfonso Lauricella, Carmelo Corbo e Samuel Pio Donzì. Nicolò Vasile, invece, ha negato le accuse. Nelle prossime ore sarà emessa l’ordinanza sulla richiesta di convalida dei fermi.

Nelle carte del provvedimento di fermo, sono riportati anche diversi episodi recenti. Uno di questi, addirittura, di poco meno di un mese fa. Era il 23 novembre scorso quando i carabinieri del Comando provinciale di Agrigento fermano lungo la Statale 115, quasi in prossimità del territorio di Licata, un’auto con a bordo due persone. Si tratta di due operatori ecologici, uno dei quali Guido Vasile, 66 anni, di Villaseta, dipendente di una ditta di rifiuti, noto in città per la sua attività di rappresentante dei netturbini che lo ha portato, in passato, a partecipare pure a incontri e riunioni con rappresentanti istituzionali. Quello che doveva essere un normale posto di controllo in realtà non è altro che l’attività investigativa di riscontro all’inchiesta dei carabinieri del reparto Operativo di Agrigento sfociata con il fermo, appunto, di trenta persone. I militari dell’Arma hanno proceduto alla perquisizione della vettura trovando un sacchetto della spesa blu, contenente ben 120 mila euro in contanti suddivisi in cinque buste: 50 mila euro in due contenitori, 40 mila euro in altrettanti e 30 mila euro in una busta. L’accompagnatore di Vasile si è assunto la paternità del sacchetto affermando di averlo trovato casualmente su alcuni gradini del centro storico di Agrigento, mentre stava svolgendo la sua attività di operatore ecologico. Vasile era intercettato da mesi e proprio le microspie hanno permesso di documentare tutte le fasi precedenti. La sera prima, infatti, si era organizzato il viaggio a Licata e con quei soldi, secondo gli inquirenti doveva pagare una partita di sostanze stupefacenti, poi da spacciare tra Agrigento, Villaseta e territori limitrofi.

Altro episodio: I  carabinieri del Reparto Operativo di Agrigento vanno ad arrestare il padre e durante le perquisizioni estese anche ai familiari, trovano della droga del tipo hashish nella stanza del figlio.

Si tratta di un 23enne, che alcuni mesi fa è stato condannato con l’accusa di avere nascosto mezzo chilo di droga in un casolare di Villaseta. Il giovane agrigentino è stato nuovamente denunciato, in stato di libertà, alla Procura della Repubblica, per detenzione di sostanze stupefacenti ai fini di spaccio.

«Gli dobbiamo fare due buchi alle gambe… deve finire all’ospedale. Una cosa a volo». Era il giugno scorso quando, nel carcere, venne intercettata una conversazione tra un detenuto empedoclino per reati di mafia e un commerciante agrigentino. Il contesto è chiaro: l’aria tesa tra i clan di Porto Empedocle e quello di Agrigento/Villaseta stava per sfociare in un’aggressione armata.

Il motivo? Pochi giorni prima, qualcuno aveva incendiato un furgone appartenente al commerciante. Il sospetto ricadde immediatamente sul gruppo avversario. Da qui, l’ordine: colpire uno degli uomini di Villaseta, gambizzarlo per dare un segnale. Un piano che non si è concretizzato solo grazie alla mirata presenza dei carabinieri nella zona, che hanno evitato l’agguato.

L’indagine ha acceso i riflettori su due storiche famiglie mafiose. Da un lato, il clan di Porto Empedocle, guidato da Fabrizio Messina; dall’altro, la fazione di Agrigento/Villaseta, capeggiata da Pietro Capraro e dal suo gruppo fidato, composto dagli indagati Gaetano Licata, Gabriele Minio e Guido Vasile. Questi ultimi sembrano aver approfittato della detenzione al 41 bis dello storico capo cosca, Antonio Massimino, per guadagnare terreno. 

La tensione tra i clan non è cosa nuova. Giuseppe Quaranta, collaboratore di giustizia di Favara, aveva già raccontato della storica divisione in due schieramenti all’interno di Cosa nostra agrigentina: uno vicino alla linea dei Fragapane e l’altro a quella di Giuseppe Falsone. Una rivalità risalente ai tempi in cui Francesco Fragapane, figlio di Totò (storico capo della mafia agrigentina), cercò di eliminare Falsone e consolidare il potere. 

Cosa nostra agrigentina ha dimostrato nel tempo una straordinaria capacità di tessere alleanze nel mondo della politica e dell’imprenditoria, come dimostrano i numerosi blitz degli ultimi anni. Oggi, però, è l’escalation di intimidazioni a destare preoccupazione.

Secondo l’ultima annotazione dei carabinieri del 2 dicembre scorso, la situazione è allarmante. Si parla di una recrudescenza di atti intimidatori, spesso compiuti con armi da guerra, la cui disponibilità tra gli indagati appare “pressoché illimitata”.

Un altro elemento inquietante riguarda lo “sconcertante utilizzo” dei telefoni da parte degli uomini d’onore detenuti, o di soggetti a loro vicini. Questo sistema consente loro di mantenere i contatti con i sodali in libertà, impartendo ordini e direttive come se nulla fosse. Un potere di comando che neanche le sbarre sembrano riuscire a scalfire. Le dinamiche della guerra tra i clan di Porto Empedocle e Agrigento/Villaseta sono ancora in evoluzione. Resta, però, la certezza di un sistema capace di rigenerarsi e di alzare pericolosamente l’asticella della violenza.

Un territorio in cui le pattuglie dell’Arma e le attività investigative restano l’unico argine tra la criminalità organizzata e la popolazione.

Un “corto circuito” di valutazione ha riguardato Fabrizio Messina, accusato di essere ancora l’indiscusso capo della mafia di Porto Empedocle. Nonostante le indagini della DDA di Palermo, che dal dicembre 2021 fino a ieri hanno monitorato le attività del clan, un altro giudice ha ritenuto che Messina non fosse più un pericolo. Nel gennaio 2023, il giudice di sorveglianza di Agrigento ha deciso di revocargli la libertà vigilata, motivando la decisione con il fatto che Messina non fosse più “operativo”. Sebbene non avesse mai formalmente rinnegato il suo passato mafioso, il magistrato ha sostenuto che Messina, durante quel periodo, si fosse dedicato al volontariato e avesse aiutato il fratello con l’attività di vendita di prodotti ittici. Per il giudice, la sua “pericolosità sociale” era terminata. Tuttavia, mentre il giudice di sorveglianza prendeva una decisione di questo tipo, la DDAcontinuava a seguire le tracce di Messina, rivelando un quadro tutt’altro che rassicurante. Messina è una vecchia conoscenza degli inquirenti, avendo già scontato 4 anni di carcere al 41 bis dopo essere stato coinvolto nell’operazione antimafia “Cupola”. Nonostante le sue passate condanne per reati mafiosi, Messina ha sempre avuto il controllo sul clan di Porto Empedocle, una famiglia con radici profonde nella tradizione mafiosa dell’isola. Il suo passato è segnato da un errore giudiziario: fu accusato ingiustamente dell’omicidio di Giuseppe Monterosso in provincia di Varese. L’inchiesta poi rivelò che Messina non aveva avuto alcun ruolo in quel delitto, portando a un risarcimento di 4.230 euro per il periodo in cui fu detenuto ingiustamente. Nonostante ciò, le indagini non hanno mai avuto dubbi sulla sua appartenenza a Cosa Nostra, e Messina è considerato uno dei leader di spicco della famiglia mafiosa di Porto Empedocle.

La famiglia Messina, una delle più potenti e storiche dell’isola, ha visto molti dei suoi membri coinvolti in attività criminali. Il padre di Fabrizio, Giuseppe, e lo zio Antoniofurono uccisi nel 1986 durante la guerra tra Cosa Nostra e Stidda, ma Fabrizio e suo fratello Valentino furono risparmiati dai killer, che li lasciarono illesi. I fratelli Messina hanno avuto guai con la giustizia: Salvatore, il maggiore, è stato condannato all’ergastolo per omicidi e tentati omicidi. Durante un permesso, quando poté tornare a casa, fu accolto da numerosi sostenitori, nonostante fosse scortato dalla polizia penitenziaria. Gli altri fratelli Gianni e Valentino sono stati arrestati, ma poi assolti, in operazioni contro i clan agrigentini. Il più noto di tutti, però, è stato Gerlandino Messina, ex superlatitante e capo della famiglia agrigentina. Dopo una lunga fuga, fu arrestato nel 2010 in un blitz dei carabinieri del Ros a Favara. Gerlandino ha scontato l’ergastolo per associazione mafiosa e diversi omicidi, tra cui quelli del maresciallo dei carabinieri Giuliano Guazzelli e del sovrintendente di polizia penitenziaria Pasquale Di Lorenzo. È stato anche il carceriere del piccolo Giuseppe Di Matteo, uno dei casi più drammatici della storia della mafia siciliana. La famiglia Messina, inoltre, ha legami con Josef Focoso, un killer arrestato in Germania nel 2005, e con Pasquale Salemi, il primo collaboratore di giustizia della provincia di Agrigento. La vicenda di Fabrizio Messina, purtroppo, è solo un esempio di come le famiglie mafiose in Sicilia riescano a mantenere il controllo e l’influenza anche quando sembrano essere state abbattute dalle forze dell’ordine, grazie alla protezione di alleanze interne e alla capacità di infiltrarsi nelle istituzioni e nel tessuto sociale.

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