Salva grazie all’equipe del reparto di chirurgia dell’ospedale di Agrigento
Una donna agrigentina affida ad una lunga e toccante lettera il compito di ringraziare l’equipe sanitaria del reparto di chirurgia dell’ospedale “San Giovanni di Dio” di Agrigento per averle salvato la vita intervenendo tempestivamente a seguito di un blocco intestinale. Il testo, che riportiamo integralmente, è anche un invito riflettere sul valore, mai scontato, della vita stessa e un monito a non sprecare gli attimi della nostra esistenza:
“Siamo tutti abituati a parlare delle cose che non vanno piuttosto che di quelle che vanno in porto, ci concentriamo sul difetto centellinando critiche e rimbrotti che quasi ci sembra assurdo doverci fermare e riconoscere qualcosa che va per il verso giusto.
E’ quello che è capitato a me pochi giorni fa e l’oggetto del mio discorso è rivolto alla nostra sanità, in Sicilia, parole che mai avrei pensato di poter attribuire ad una macchina che da sempre si nutre di epiteti poco piacevoli, di feedback perennemente negativi, conosciuta sopratutto per la sua lentezza, per quella nota poca efficienza e per quella scarsa preparazione di medici che, a detta dei più laureati alla celebre università del “cerco i sintomi su google e faccio da me la diagnosi”, non saprebbero fare il loro lavoro. Il condizionale è d’obbligo perché io, ben contro le aspettative, li ho riconosciuti come dei veri e propri angeli, avvolti dal bianco del loro camice e da quella calma indefessa del loro smagliante sorriso che non si è mai scostata dai loro visi, e questo nonostante parliamo del reparto di chirurgia, un reparto tra i più delicati e lì di sorrisi se ne vedono ben pochi.
Nel mio caso specifico tutto comincia per caso, come accade in questi casi: nessuna patologia specifica, nessun precedente che mi avrebbe potuto far pensare a qualcosa di brutto…
Solo un fastidiosissimo e continuo mal di pancia, arrivato subdolo nelle vesti di ipotetico pre-ciclo, di virus intestinale e di malessere che, a detta di tutti, se ne sarebbe andato con la stessa velocità con il quale era arrivato.
Tutti abbiamo avuto d’altronde un banale mal di pancia, chi più chi meno possiamo capire i fastidi di cui parlo, ma nel mio caso non passava, era come se si fosse innescato un meccanismo che anziché andare scemando, si esacerbava sempre di più.
Mi convinco che non è nulla e quasi sopporto, faccio a pugni col dolore e tento di non farmi vincere da quest’ultimo: antidolorifico, punture di plasil, gaviscon, penso che potranno bastare, no? D’altronde è solo un mal di pancia. Dicono…
I dolori non accennano a terminare e diventano insostenibili, inizio a contorcermi, a muovermi in modo sconnesso e vorrei urlare. Nessuno capisce, nessuno che può pensare che, forse, può essere altro.
La notte del 13 giugno è la peggiore. Decido di passare la notte da mia madre e lì, oltre a perdere più volte i sensi, arrivo persino a vomitare le feci. Basta: è troppo.
Il medico arriva in casa e, al solo toccarmi lo stomaco, ecco che si blocca e sentenzia quelle parole che non avrei mai voluto sentire: ‘è grave: va portata immediatamente all’ospedale, già domani potrebbe essere troppo tardi’.
E’ lì che capisci tante cose, è lì che il dolore si mischia alla paura e tutto sembra azzerarsi perché se non è quella la fine, ci si è vicini, sfiori l’idea della precarietà del tempo, spariscono in un istante tutti quei grilli che avevi per la testa e il tuo unico obiettivo diventa uno solo: quello di sopravvivere.
Non ci è voluto tanto all’arrivo di mia sorella e nel giro di pochi minuti, in quella notte che mi è sembrata non finire mai, mi sono ritrovata in opedale, il nostro ospedale, quel San Giovanni di Dio noto per i suoi punti deboli che per quelli di forza e penso che non avranno quella giusta professionalità capace di salvarmi la vita. Ma non sono io il medico, in questo momento sono l’ultima che può lamentarsi e se lo faccio è per il dolore che, nel frattempo, si è come quintuplicato.
Nel giro di poco tempo mi trovo in una stanza, poi in un’altra, poi in un’altra ancora. Vedo nel giro di pochi minuti decine e decine di dottori, di infermieri, tutti rivolti a me, alla mia situazione, al mio dolore, che in quel momento sento essere un po’ anche il loro.
Mi portano a fare una Tac ed ecco il responso che oramai era nell’aria: ‘occlusione intestinale’ con conseguente ‘va operata, immediatamente’. E’ quell’ ‘immediatamente’ che mi preoccupa, quell’emergenza non prevista e non considerata nello scacchiere della vita.
Mi rassereno e decido di non dire niente ai miei figli, li avrei fatti preoccupare inutilmente. Ci sta mia sorella con me, vedo il suo sguardo che vorrebbe darmi forza ma che riconosco essere a sua volta preoccupato.
Mi stringe a sé in quell’abbraccio che sarebbe potuto essere anche l’ultimo e ripenso a quando da bambine immaginavamo il nostro futuro, i nostri sogni, le nostre vite. Siamo da sempre molto unite e questo legame lo sento ora più che mai vivo, in grado di andare oltre le ali tenebrose di una morte incombente e mi convinco che ad avere fiducia, in primis in Dio e poi anche nei dottori.
Guardo in alto e tento di pregare anche se so che tutto nella vita ha un perché, anche quel mio trovarmi su quel lettino. Altri medici arrivano celeri e nel giro di pochi minuti mi ritrovo in sala operatoria, mi sorridono ancora e mi dicono di stare tranquilla. Poi tutto avviene, mi addormento e mi risveglio dopo qualche ore: è andato tutto bene. Aperti gli occhi, prendo cognizione di una cosa: sono ancora viva. Conta questo.
Se oggi sono qua a scrivere queste righe, se oggi posso raccontarlo, è perché quegli angeli mi hanno salvato la vita, sono arrivati giusto in tempo e non un secondo più tardi, hanno fatto sì che io potessi rivedere ancora una volta i miei figli, la mia famiglia, la natura.
Come diceva Seneca, non abbiamo poco tempo, semplicemente ne sprechiamo molto dietro a cose per cui non ne vale nemmeno la pena. Se solo tutti potessimo apprezzare oggi quello che abbiamo piuttosto alle cose che ci mancano e che vorremmo, forse impareremmo a dare valore a tutto quello che abbiamo già ma che neanche scorgiamo.
Che dire: i ringraziamenti vanno a tutti, tutti, tutti i medici, infermieri, responsabili, ognuno di loro è stato importante per me, sempre cordiali e disponibili anche di fronte alle richieste più impensabili. Loro dicono “è il nostro dovere”, io invece aggiungo che niente è dovuto, soprattutto essere gentili, educati, comprensivi.
Mi hanno salvato la vita e io spero, da questo momento in poi, di sapergli dare tutto quel valore che essa merita davvero”.