La questura di Agrigento ha vietato i funerali di Vincenzo Di Piazza, capomafia di Casteltermini morto nella sua abitazione dove stava scontando una condanna a 18 anni di carcere inflitta nell’ambito dell’operazione Kamarat. L’anziano era in carcere dal 2011 in regime di 41 bis e aveva ottenuto i domiciliari per motivi di salute. Determinanti, per fare scattare l’arresto, furono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Maurizio Carrubba di Campofranco. La questura ha disposto per motivi di ordine pubblico lo stop a ogni funzione pubblica per le esequie. La “carriera” criminale di Di Piazza parte da lontano: nel 1995 è stato arrestato per aver favorito la latitanza del capo di Cosa nostra agrigentina Salvatore Fragapane, oggi ergastolano, scovato dalle forze dell’ordine dopo un periodo di latitanza proprio nella masseria di Vincenzo Di Piazza, ritenuto un “fedelissimo” del “mammasantissima” di Santa Elisabetta. Il boss di Casteltermini, detenuto per anni al 41bis, era tornato ai domiciliari tre anni fa per motivi di salute. L’ultimo arresto risale al 2011 quando fu coinvolto nella “costola” dell’inchiesta antimafia “Kamarat” che interessò le famiglie mafiose della “Montagna” in provincia di Agrigento. Ad inchiodarlo le dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia. Il Tribunale di Palermo lo ha condannato (in continuazione) a 18 anni di reclusione per associazione mafiosa. La Dia di Agrigento, guidata dal vicequestore Roberto Cilona, nel 2014 ha eseguito un provvedimento di sequestro beni dal valore di circa un milione di euro: gli agenti, in quell’occasione, misero sigilli a 6 fabbricati, compresi quelli rurali; 335 appezzamenti di terreno, adibiti a seminativo o pascolo; un’azienda per l’allevamento di bovini e caprini; una ditta individuale per la coltivazione di cereali e cinque conti correnti bancari. Sequestro beni, immediatamente appellato dai difensori dell’uomo e dagli aventi diritto (che non hanno mai smesso di segnalare come nessuno dei Di Piazza abbia mai ricevuto accuse riguardanti reati tipici di mafia come estorsioni, danneggiamenti, omicidi) che in gran parte non è stato confermato da due provvedimenti specifici del Tribunale di Agrigento e Corte d’appello di Palermo, restituendo così i beni allo stesso Di Piazza ed ai suoi familiari.
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