Di Giuseppe Lauricella.
Un nome dalle mille suggestioni, eco di un’età felice quando le viuzze storte del quartiere Borgalino le sentivo piazze e le case proiettavano ombre come di palazzi, con le chiese nido per ragazzi imberbi e donne chiuse nei vestiti neri, con i cortili come casa comune dove l’intimità si stemperava in una condivisione di reale e immaginario.
Borgalino: uno stato d’animo e una identità.
Per tornare a godere sensazioni e orme dei tanti giorni vissuti e spesi in quella parte di paese (paese completo esso stesso) m’incammino a piedi, riconoscendo e respirando gli umori che ancora i muri delle vecchie abitazioni, non ancora brutalizzati dal cemento e da colori improbabili, rilasciano.
Inizio dalla vecchia centrale elettrica Martorana e risento lo sferragliare assordante delle macchine, via Colombo che mi pare risuonare dello scalpiccio degli zoccoli ferrati dei muli aggiogati ai carretti carichi di masserizie. L’imponente edificio della scuola Crispi, che proiettando la sua ombra materna su tutta la salita, si mostra custode ancora del vociare allegro di tanti fanciulli addestrati alle lettere. La piazzetta che arriva improvvisa a dare ristoro al fiato corto che gli anni regalano, quello slargo con la sua ringhiera lucida di tanti mani, contornata di palazzi dalla nobiltà discreta che oggi appaiono sfregiati da occhi ciechi e non finestre che accoglievano l’aria lavata dal sole negli ampi saloni ricchi di affreschi e stucchi. Il martellare sonoro del maglio sull’incudine dei fabbri, il raschiare ovattato della pialla del falegname con l’odore della colla calda e di quello secco del legno che sapeva di vita, l’aroma del vino lasciato libero dalle tante taverne improvvisate con il ramo di carrubo a segnalarne l’esistenza e il vanniari dei bottegai. I circoli con l’insegna di lamiera del partito appesa sulla porta e schiere di vecchi a raccogliere qualche raggio di sole come sentinelle di ideali confusi e incompresi che li dividono in fazioni.
Saluti cordiali e sorrisi sfuggenti dai baffi, mentre donne frettolose con occhi bassi si avviano verso casa cariche di sporte della spesa.
Mi immergo, spinto da una subitanea frenesia, nel dedalo di viuzze e cortili segnati da costruzioni frutto di architettura autarchica, con il capo famiglia progettista e capomastro e i figli manovali, e riscopro l’odore caldo del gesso impastato e usato in fretta prima che si secchi. Case costruite senza mutare il terreno, aggirando un masso, inglobando un anfratto, costringendo una via a deviare per assecondare un rivolo d’acqua.
Un pensiero mi coglie improvviso: a che mi giova questo bagno di ricordi? e subito mi rispondo che a spingermi è la necessità di guardarmi dentro per misurare quanta strada ho fatto, da dove son partito e dove sono giunto spendendo i miei anni seguendo una stella.
Ubriaco d’immagini, suoni e voci avanzo, cercando vanamente di districare le onde dei ricordi che mi sommergono. E sono i rumori cadenzati delle macchine da cucire, i canti delle tante sartorie, le risate che scoppiano all’improvviso dentro i dammusi affollati dei barbieri e dei calzolai, il rumore sordo delle tramogge dei mulini e il profumo unico del grano macinato che impreziosisce l’aria. Un balcone mi dipinge ragazze affacciate mimando indifferenza verso gli spasimanti intenti a lucidare i ciottoli con il loro andirivieni, il concerto gorgogliante dei cannola dell’abbeveratoio che regalano acqua amara ma freschissima, dura per lavare la biancheria ma buona per dissetare uomini e animali.
Lo sguardo gira smarrito e tutto m’appare estraneo ora. Cerco la trama dei tanti fili di panni stesi al sole, bandiere di una povertà dignitosa che cerca lindore nello sbattere del vento e mi addentro nei cortili familiari dove ogni scalino era divano per compagnie generose di chiacchiere e confidenze sussurrate, salotti dove le anziane sferruzzavano, solo apparentemente distratte dalle frotte dei tanti bambini intorno pigolanti come pulcini.
Tante porte chiuse, alcune con gli stipiti caduti, altre tarlate, altre socchiuse stanche ormai di aspettare chi non tornerà più. Sbircio dentro e la penombra rivela un vuoto di polvere e abbandono. Anche le chiese sono avvolte da un velo di malinconica solitudine e dove accoglievano frotte di fedeli ora vedono oranti solitari.
Della folla d’immagini, suoni e odori, vivi nella mia testa non trovo più traccia e il silenzio avvolge i miei passi, timorosi quasi di svegliare i fantasmi di un mondo svanito, perso nelle crepe dei muri ridotti a orti di parietaria.
Odo qualche voce e tendo l’orecchio, ma sono accenti estranei senza confidenza con i vecchi muri gessosi, il rombo di un motore mi sveglia dalla fascinazione e con pena mi ritrovo in un tempo sconosciuto che non sillaba il mio dialetto di speranza, errabondo e sconsolato in mezzo a strade senza quell’anima che mi ha fatto crescere e sognare. Abbasso lo sguardo quasi vergognandomi d’aver tentato di far rivivere un’età scomparsa e mi sciolgo in sospiri, infastidito dal suono dei miei stessi passi sull’asfalto corroso che ha cancellato le basole delle strade che non ci sono più, le vie e la vita del mio Brualinu.