Dieci milioni di euro tra quote aziendali, beni immobili, rapporti bancari e veicoli. Diventa definitiva la confisca beni nei confronti dell’imprenditore di Ribera, Carmelo Marotta, 52 anni. La Cassazione ha confermato la decisione della Corte di Appello, dopo vari rinvii e annullamenti. Lo scrive il quotidiano La Sicilia.
I beni, dunque, passano nelle mani dello Stato anche se si tratta di circa la metà di quelli sequestrati ormai sei anni fa dalla Guardia di Finanza. Non verrà invece applicata la sorveglianza speciale nei confronti dell’imprenditore per l’assenza del requisito di attualità della pericolosità sociale.
Carmelo Marotta, già indagato per associazione mafiosa nell’ambito dell’operazione “Maginot” del 2011 (il padre venne ucciso nmel 1983 a Ribera), nonchè per bancarotta fraudolenta, intestazione fittizia di beni e truffa. Marotta è stato condannato nel luglio del 2015 con sentenza definitiva per aver favorito la latitanza del capo-mafia di Agrigento Giuseppe Falsone. Marotta, dopo la condanna in primo grado, era stato comunque assolto dall’accusa di associazione mafiosa, ma la ricostruzione del suo profilo, effettuata dalle Fiamme Gialle sulla base degli atti giudiziari, ha evidenziato la sua pericolosità sociale. Già in passato il collaboratore di giustizia Calogero Rizzuto lo aveva indicato come soggetto “raccomandato” da Giuseppe e Francesco Capizzi, esponenti della famiglia mafiosa di Ribera, affinche’ non pagasse il pizzo a Sciacca. Negli anni, Marotta ha costruito un impero economico, intestato anche alle sorelle e basato sul cemento, costituendo società che gestivano cave ed imprese edili, che avrebbe poi anche messo a disposizione del boss Giuseppe Falsone, per favorirne la latitanza. Infatti il capo mafia, che utilizzava un documento falso predisposto dallo stesso Marotta, figurava quale dipendente, con mansioni di trasportatore, di una delle societa’ costituite appositamente, la “Edilmar srl”. Questo rapporto tra Falsone e Marotta, ricostruito nella sentenza che lo ha visto definitivamente condannato, ha trovato ulteriore conferma fra i documenti rinvenuti nel covo marsigliese del latitante, che nei suoi pizzini lo appellava quale “u’ maluppila” (il malpelo) in virtu’ della carnagione e del colore di capelli.